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L’Italia? Una Repubblica fondata sul lavoro sottopagato. Parola di Osvaldo Danzi

Intervista di Debora Bionda, pubblicata su HR.News

Osvaldo Danzi, Recruiter e HR Manager, è uno di quelli che non le mandano a dire. Diretto, schietto, non si fa problemi a fare nomi e cognomi quando si tratta di far notare l’assurdità di un annuncio di lavoro. Quelli, per esempio, dove si cercano figure Junior con esperienza o Senior per posizioni chiave a partita iva. Ed è proprio di questa schiettezza che c’è bisogno in un settore come quello delle risorse umane, dove è facile fare filosofia e ancora più facile trattare le persone come oggetti da pagare poco e sfruttare al massimo.

Intervistare professionisti come Osvaldo Danzi vuole dire raccontare il mondo del lavoro con quel disincanto che serve per osservare le cose come stanno. Perché la narrazione che vede le aziende come luoghi green, sostenibili, attenti, impegnati, in cui le persone possono esprimere tutto il loro potenziale e possono crescere ha fatto il suo tempo.

Come ti è venuta l’idea di fare sensibilizzazione sul mondo del lavoro attraverso post dissacranti sugli annunci di lavoro che vengono pubblicati su Linkedin?

Sono su LinkedIn dai primi tempi in cui LinkedIn è sbarcato in Italia ed è il social in cui ho creato FiordiRisorse, un gruppo che inizialmente era nato per coinvolgere HR director, ma che nel giro di qualche mese si è trasformato in qualcosa di più ampio, in una comunità di persone in cui solo una parte sono HR ma in cui si conoscono e confrontano tutti coloro che lavorano ed hanno a cuore una corretta cultura del lavoro.

Su LinkedIn ho deciso di utilizzare un tono di voce molto diretto: osservo quello che accade nelle aziende, intervisto decine di candidati ogni settimane e quando vedo incoerenza fra il racconto e la pratica, credo sia importante sottolinearlo senza troppi giri di parole.

Ho cominciato così ad avere un approccio giornalistico ad una narrazione del lavoro dove le aziende su Linkedin si definiscono “grandi famiglie” e si autoriferiscono salvo poi creare dei contesti profondamente tossici. Così come è altrettanto importante segnalare quei luoghi – spesso poco conosciuti – in cui la cultura del lavoro e l’attenzione alle Persone è davvero unica. Tutto questo posso permettermelo grazie alla notevole visibilità su Linkedin e ad una reputazione costruita negli anni che oggi mi fa intercettare tantissime testimonianze e segnalazioni dall’interno degli ambienti di lavoro da parte di dipendenti o Persone che hanno avuto in qualche modo a che fare con quei contesti e magari non possono o non vogliono esporsi in prima persona.

Naturalmente io verifico tutte le segnalazioni e chiedo sempre documentazioni, registrazioni o dimostrazioni di ciò che si denuncia. 

Una cosa che non mi ha mai preoccupato e che invece è il motivo di continue genuflessioni da parte soprattutto dei liberi professionisti nei confronti delle aziende, è di “perdere clienti”.

Fermo restando che trovo irritante chi si spertica in complimenti nella speranza di mettersi in luce e ottenere una consulenza “a qualsiasi costo” (anche della propria dignità) devo dire che mi succede esattamente il contrario: le aziende mi cercano proprio perché si riconoscono nei valori che io divulgo e non temono di essere contraddette.

Sono consapevole che non accettare grigi o compromessi restringe notevolmente le mie opportunità, ma con certe aziende non ci lavoro per default. È un discorso etico e di coerenza che viene sempre premiato.

Cosa secondo te è inaccettabile in certi annunci di lavoro?

La cosa più inaccettabile è l’incoerenza. Aziende che si fregiano di mettere le “persone al centro”, che parlano di inclusione, di parità di genere, e poi pubblicano annunci discriminatori dalla prima all’ultima riga. Per non parlare di quelle in cui capisci lontano un miglio che stai per finire in un ambiente tossico. Sono quelle in cui le job description anziché spiegare quali siano le competenze richieste, si pubblicano liste di retropensieri e pregiudizi in cui si elencano tutto quello che “un candidato non deve essere e non deve fare”.

Così come è sorprendente l’approccio agli annunci di lavoro di quel mondo startup, di giovani che si definiscono innovativi e nella necessità esasperata di mostrarsi creativi e “fuori dagli schemi” pubblicano job description volgari, piene di parolacce, scritte in inglese maccheronico con termini senza senso o benefit che fanno accapponare la pelle o ancora richieste di competenze a pioggia in cambio di trattamenti economici ridicoli.

Se queste sono le generazioni dirigenziali di domani, se sono i riferimenti, io dico che siamo nei guai. Siamo di fronte ad una bella passata di vernice sul vecchio che avanza.

In gran parte degli annunci non è indicata la RAL, che ne pensi?

Non mettere un range retributivo è una pratica del tutto italiana che ancora una volta contraddistingue una cultura del lavoro che oltretutto rappresenta un grandissimo autogol. Esprimere le condizioni contrattuali è il primo segnale di comunicazione verso i tuoi candidati di serietà e trasparenza. Oltre al fatto che indicando il range retributivo si risparmia tempo da ambo le parti e si evita di dover dire ai candidati quella fastidiosissima frase: “lei è troppo qualificato”.

Il problema è che i budget per certe selezioni sono talmente bassi e la consapevolezza di certe aziende rispetto alla giusta retribuzione in funzione di competenze elevate è talmente distaccata dalla realtà, che se indicassero la RAL si tirerebbero dietro critiche a non finire e sarebbere costrette a passare le giornate a rispondere a commenti poco gratificanti sui social, quindi si guardano bene dal farlo.
Per non parlare di quelle aziende che hanno anche il peccato originale di presentarsi come delle aziende “top employer”.

Alla base di tutto c’è una carenza culturale proprio nell’immaginare un’organizzazione in equilibrio fra retribuzioni, competenze richieste e costo della vita. Ma se non hai il budget adeguato per permetterti certe professionalità, sarebbe meglio non assumere. Troppo facile proporre condizioni inadeguate e poi raccontare sui social che la gente non ha voglia di lavorare.

Hai scritto anche del caso della bidella pendolare fra Napoli e Milano, secondo te c’è una narrazione del lavoro distorta a livello di media?

Quella storia è stata un boomerang per “Il Giorno” che ha pensato di fare uno scoop e invece ha fatto solo una brutta figura, giornalisticamente parlando. Non sono stati verificati i dati, non è stato fatto un minimo di approfondimento non c’è stata una verifica su cedolini e sui costi degli abbonamenti dei treni. Alla fine altri giornali hanno smascherato la faccenda che si è rivelata una mediocre operazione clickbait.

Giornalisticamente una dèbacle, commercialmente un successone.

Pensa anche a quanto la stampa ha cavalcato mesi fa la storia di questa ragazza che dispensava consigli ai giovani sull’importanza della gavetta. Peccato lei fosse figlia di un grande imprenditore del settore alimentare che ha finanziato l’azienda di pokè della figlia, che fra l’altro pare non navigasse nemmeno in buone acque e avesse già portato i libri in tribunale.

Questo è diventato il giornalismo di massa.

Per questo motivo hai creato SenzaFiltro?

Sì, SenzaFiltro nasce per fare un diverso tipo di informazione. Un’informazione “senza filtro”, per l’appunto. Ci siamo seduti intorno ad un tavolo con i primi collaboratori con lo scopo di realizzare una testata giornalistica che andasse a colmare un vuoto assoluto: parlare di lavoro con cognizione di causa. Non dal punto di vista solo economico, finanziario o politico, ma dal punto di vista della cultura del lavoro.
Siamo stati fra i pochissimi se non gli unici ad affrontare concretamente temi che riguardassero il futuro dei giovani, il reddito di cittadinanza, l’intelligenza artificiale applicata al lavoro, il lavoro nelle carceri, reportage sulle singole regioni italiane e anche a mettere in discussione modelli che la stampa di massa ritiene “indiscutibili”.

Ma soprattutto non ci sono giornalisti specializzati sui temi del lavoro.

Quali sono secondo te i temi di cui bisognerebbe parlare molto di più in questo momento?

Ce ne sono tanti, a cominciare dal fatto che oggi in Italia abbiamo 70 tavoli di lavoro aperti ed altrettante aziende che stanno chiudendo per motivi urgenti, dalla concorrenza sleale incontrollata e non normata da nessuno dei Governi presenti e passati, fino ad acquisizioni selvagge (vedi Whirlpool e GKN) che non hanno nessuna ottica di futuro.

La pressione fiscale sulle aziende è insostenibile. A molti imprenditori viene proposto di aprire le loro aziende in altri Paesi offrendo affitti bassissimi, nessun tipo di controllo dal punto di vista ambientale, agevolazioni fiscali.

Ma abbiamo anche una concorrenza “in casa” da parte di aziende prevalentemente asiatiche, che offrono sub forniture a prezzi bassissimi e fuori dalle norme di qualità senza alcun controllo. Imprese che aprono e chiudono nel giro di tre anni, con nomi impronunciabili, realtà che spariscono e non rispettano quei controlli qualità, ambientali e normativi a cui sono sottoposte le nostre aziende.

Tutto questo succede senza che la politica se ne occupi e con la complice assenza delle associazioni di categoria impegnate solo in mega convegni e a raccogliere tessere.

A proposito di lavoro e compensi, può essere un intervento efficace l’introduzione del salario minimo?

È sicuramente un tema di cui parlare. Ma ti dirò di più: quello dei compensi è un problema più ampio che riguarda la produttività del nostro Paese che di anno in anno è sempre più bassa proprio per i motivi che elencavo sopra e che spingono le aziende a produrre di meno o a spostare produzioni – quando non direttamente le forniture – all’estero o in outsourcing.  

Stiamo diventando un Paese senza produzione, orientato solo ai servizi. Senza know how finiremo per focalizzarci solo sui prezzi e non sul prodotto, e quando i margini sono ridicoli, anche gli stipendi diventano insostenibili.

Cosa pensi di chi crede che il reddito di cittadinanza invogli le persone a stare a casa invece di andare a lavorare?

Le persone non vanno a lavorare quando il reddito di cittadinanza diventa il diretto competitor di uno stipendio. Io credo che nessuno abbia voglia di starsene tutto il giorno sdraiato sul divano.

Per carità qualche furbetto fra chi percepisce il reddito di cittadinanza c’è, ma c’è anche chi fa il furbo in azienda o nella pubblica amministrazione.

La storiella per la quale le Persone rifiutano i lavori per colpa  del reddito di cittadinanza è stata ampiamente smontata quando qualche giornale come SenzaFiltro ha iniziato a verificare offerte di lavoro, stipendi e anche la reputazione di certe aziende. Ma soprattutto il modo con cui queste cercano i candidati. 

Con un post it attaccato fuori dal portone dell’azienda e stipendi al di sotto della soglia di sostenibilità, non puoi dare la colpa se non a te sstesso e alla tua incapacità di troare candidati e di attrarli.

Quando toglieranno il reddito di cittadinanza sarà un disastro, più di 2000 famiglie saranno alla fame, senza avere un’alternativa.

Nel resto d’Europa il reddito di cittadinanza si chiama in altri modo ma esiste e funziona. In Spagna e in Francia ce n’è addirittura di 5 tipi diversi. È un modo per tenere in piedi uno Stato e tutto il suo ecosistema economico.

Si fa un gran parlare di persone al centro e di wellbeing, ma come le aziende possono essere davvero attente alle proprie persone?

Il benessere delle persone parte da un direttore del personale e da dirigenti veramente impegnati nella felicità dei dipendenti. Se sei un’azienda tossica che non ha attenzione per i suoi collaboratori, per le maternità, per la meritocrazia, non sarà mettendo in bella mostra secchi di frutta e verdura sui tavoli, proiettando filmini o side patinate meramente di facciata che i tuoi dipendenti diventeranno più felici.

Le persone sono felici quando guadagnano bene e hanno dei piani di welfare come Dio comanda, quando il capo non sta a guardare l’orologio controllando le entrate o le uscite o pensando che lo smart working sia una scusa per chi vuole stare sul divano a non fare nulla.

Il problema è che noi non siamo un Paese che ha una reale cultura del lavoro. Questo ce lo dobbiamo mettere in testa. L’Italia si rivela essere una Repubblica fondata sul lavoro sottopagato e il caporalato.

A proposito di cultura del lavoro, come è nato Nobìlita?

Nobìlita è il festival della cultura del lavoro. Lo organizziamo da sei anni ed è “il braccio armato” di SenzaFiltro. Il momento in cui incontriamo il nostro pubblico e la community dei nostri lettori. Si tratta di un evento moderato da giornalisti del calibro di Giorgio Zanchini, Debora Rosciani, Frediano Finucci, Massimo Cerofolini, in cui si conducono panel molto trasversali sul mondo del lavoro che nascono dalle idee di un comitato composto da tutte le persone che hanno partecipato al festival negli anni precedenti.

Dopo una bella selezione, viene fuori il programma dalla condivisione delle idee di tutti e con lo scopo di proporre qualcosa di concreto, non conferenziale, ma alla portata di tutti.

È un festival non tecnico, dedicato alla città che lo ospita, sul palco si alternano scienziati, filosofi, sociologi, divulgatori, qualche imprenditore. Dopo Bologna, Imola, Ivrea e Bari, quest’anno si svolgerà a maggio a Roma. L’idea è quella di creare consapevolezza e cultura per ridurre i conflitti: generazionali, sociali, economici, di genere.

Un festival di tutti, proprio come dovrebbe essere il lavoro.

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