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Lavorare (h)a tutti i costi. Quelli che non vogliono il Ferragosto

Il lavoro nobilita l’uomo. Non c’è dubbio. Averlo oggi è un lusso e una fortuna da tenere ben stretti. Come la salute, gli amici, gli affetti e un cervello riposato e produttivo. Nell’arco di poche ore su Facebook si apre un dibattito che inizia cosi:

Ero convinto che le ferie fossero un benefit intoccabile. Un buon manager sa quanto sia importante viaggiare, nutrire i propri interessi, ascoltare voci nuove, fare esperienze diverse. Fa bene al suo lavoro: torna in ufficio “ricondizionato” e con idee nuove. Fa bene alle sue relazioni professionali, perchè gli permette di avere due argomenti di discussione in più ed evitare quei barbosissimi pranzi di lavoro “alla Milanese” dove si finge cordialità e si parla solo, sempre e soltanto di lavoro. Fa bene al suo ambiente professionale, perchè avrà avuto modo di pensare alla sua famiglia e ai suoi amici e non vivrà tensioni che inevitabilmente trasferisce nel business. Un buon manager vuole questo, per sè e per la sua squadra.

Sono invece rimasto sorpreso da una serie numerosissima di commenti a favore dell’argomento “mai-In-Ferie”. Confermato e sostenuto poi da Giampaolo Colletti su questo articolo del Fatto Quotidiano che cita fra i sostenitori della tesi , un email giuntagli da oltreOceano da una persona stupita del fatto che in Italia (pare) siamo sempre in vacanza nonostante la crisi. Insomma: i soliti Italiani che anche nei momenti difficili non sono in grado di organizzarsi e lavorare duramente (come gli Americani? Basterebbe dare un’occhiata ai contratti collettivi Italia/USA, alla differenza di orari, alle festività nazionali e alle possibilità di “anni sabbatici” con posto garantito.. Ma tant’è… tiramm’ annanz’!)

La mia riflessione a questo punto non è di carattere sociale; ognuno è libero di decidere del suo tempo come meglio crede, convinto che fra i fautori del “mai-in-vacanza” ci siano una buona serie di workaholic indefessi che si aggirano nei corridoi deserti della propria azienda mandando email a tutti per far sapere (soprattutto ai propri capi) che “si, io sono qui a monitorare le sorti dell’azienda”. Se sei uno di questi, sappi che ogni volta che pigi il tasto “send” i tuoi colleghi / dipendenti “non ti stanno stimando” (per usare un eufemismo). Per non parlare delle cene (ti sei mai chiesto perché non ti invitano mai?) in cui sei il protagonista prediletto delle prese per i fondelli. (pare ti chiamino “il formichiere”, per quella tua caratteristica…)

C’è tuttavia, per onestà commerciale, da ammettere che certe aziende non possono chiudere. Sono quelle aziende che producono e distribuiscono beni di prima necessità e quelle che devono assistere tecnicamente i loro clienti, spesso 24h/24 (infortuni, carriattrezzi, telefonia e computers, macchinari). Ma non credo che queste aziende raggiungano il 10% complessivo delle attività commerciali del Paese.

L’oggetto puro del discorso per me è ancora manageriale ovvero: qui si parla esclusivamente di gestione del tempo e di organizzazione aziendale. A latere, di etica del lavoro.

Approfondirò: nell’articolo di Colletti, l’utente denominato “il gemmologo” posta un commento di questo genere:

La prima domanda è: ma che azienda / manager sei se hai bisogno di fare i colloqui di domenica? Non è questa un’attività aziendale? Perché mai dovrei raggiungerti per un colloquio quando gli uffici sono vuoti? Anche io voglio valutare la tua azienda. Voglio vedere che faccia hanno i tuoi dipendenti, se sono scoglionati o felici, se l’ambiente è dinamico o se è un cimitero, quante persone ci sono… Ma soprattutto: se ritieni che la selezione del personale sia un’attività secondaria che non ha nella tua azienda l’onore di parteciparne regolarmente ai processi (e tantomeno tu non hai nemmeno un responsabile di funzione al punto da dover fare tutto in prima persona..), ti immagini che valore dai alle Persone? Capito perché l’Italia affonda?

La seconda obiezione riguarda invece questa necessità del “tutto disponibile 24h/24”. Ma fino a dieci anni fa, il sabato e la domenica i negozi erano per la maggior parte chiusi. Le famiglie si organizzavano per la spesa, le mamme facevano le scorte per il weekend, si pianificavano pranzi, cene e varie, ma non ricordo nessuna casalinga in astinenza da basilico e nessun figlio morire di fame all’angolo della strada col cartello “vittima di madre sconsiderata che ha dimenticato di passare dalla Lidl”. I commessi dei negozi, ai quali viene richiesto di non avere una vita privata decorosa poiché l’unico loro scopo sembra sia allentare la nostra noia, non solo sono sottodimensionati, ma spesso hanno contratti temporanei, straordinari non pagati, turni massacranti. E’ etico questo? Il tuo caxxo di telefonino non puoi andarlo a comprare in un altro momento come si faceva dieci anni fa? Ti viene l’extrasistola da configurazione del POP se per un weekend non scarichi la posta dallo smartphone? Sei sicuro, Masterchef, che senza scalogno la tua minchia di frittata non venga bene ugualmente?

Terzo punto riguarda il tema “ferie / crisi”. Dalla mail che ha ispirato il post, così come qualche commento a latere ( “Ma mi chiedo: riuscite ancora in Italia a prendervi questo stacco così lungo, nonostante la crisi?” ) si evince una dicotomia fra coloro che (non avendo un’azienda) pensano che la crisi si risolva lavorando di più. Dall’altra parte ci sono le aziende che invece approfittano dei tempi meno produttivi per far smaltire un po’ di ferie ai dipendenti e ridurre i consumi vivi.

Probabilmente entrambe le posizioni potrebbero essere corrette. Voce del verbo correggere. Nel senso che le correggo io.

Al primo andrebbe ricordato che la crisi (partita fra l’altro proprio dagli USA), non ha certamente un fondamento nell’ ipo-produttività, anzi. Forse certe banche e certe aziende hanno fatto più “lavori” di quanti necessari! Ai secondi che, chiedere a qualche funzione strategica di dare una reperibilità telefonica anche solo da casa, magari in una fascia oraria predefinita dopo aver avvisato tutti i clienti con una bella newsletter di buone vacanze, non solo fa fare bella figura, ma evita problemi di reputazione e di customer care. Basta organizzarsi per dare l’idea di essere attivi, senza necessariamente esserlo a costo pieno.

Una nota positiva, controcorrente ai post di cui sopra, tuttavia ce la da il sito di TGCOM24. Sembra che ci siano alcune aziende che hanno deciso di non chiudere grazie ad un notevole incremento degli ordini.

In definitiva, a chi interpreta il lavoro come un insano meccanismo mentale della serie:

ci sarebbe da dirgli: i progetti prevedono un cliente e un progettista, un team e una serie di incontri e scambi di idee. Quelli di cui parli tu, non si chiamano progetti. Si chiama “assolo”!

Pubblicato ne Il Salotto del Caffè di Luca Carbonelli

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