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Brunetta ha la laurea, ma io so sporzionare il pesce al ristorante

Non posso dire che l’Università non mi sia servita.

Mi ha permesso di prendere in affitto il mio primo appartamento insieme a Salvatore e Luigi e di scegliere il mio primo arredamento in mancanza di IKEA, di mescolarmi con persone che non fossero la mia famiglia e profondamente diverse da me: nella velocità, negli orari, nel quotidiano. (I coach oggi la chiamerebbero diversity management).
Oggi penso a quei genitori che ritirano da scuola i propri figli perché in classe convivono con persone di estrazione diversa con la scusa che “rallentano l’apprendimento” e mi chiedo che uomini e donne saranno quei figli. E quei genitori. Quanto valga conoscere una formula matematica anziché 5 parole di una lingua straniera, chiedere ai diretti interessati perché non mangiano il maiale (anziché farselo spiegare da Salvini) e guardarli pregare un Dio diverso.

All’Università ho incontrato la ragazza col cappotto giallo, gioia e tormento. “Amava” me e uno completamente diverso da me. (I coach oggi direbbero: differenziava). Poi ha sposato uno che non ero né io ne quello diverso da me, ma è stato importante conoscerla: nei pomeriggi sotto i portici del chiostro di Lettere, in quell’appartamento, nelle rincorse per convincerla a restare. (I coach la chiamerebbero value proposition). I competitor si sono rivelati più forti.

All’Università ho conosciuto Wellyn, il lettore d’Inglese che però era del North Carolina e aveva fatto il militare in Groenlandia. Il primo giorno mi ha chiesto come mi chiamavo e poi ha commentato “è il nome più brutto che abbia mai sentito!” accompagnato da una grassissima risata e un riferimento che non ho capito a Lee Oswald, l’assassino di Kennedy. Ho comunque risolto con grande perizia qualsiasi attacco all’autostima, considerando oltretutto che “lingue e letterature straniere” era un corso formato da 25 persone di cui 3 uomini e 22 donne, e siamo diventati grandi amici.
Wellyn mi ha fatto conoscere il primo ristorante cinese, la sceneggiatura, la “Casa dei Giochi” e tutta la filmografia di David Mamet. Conosceva tutte le trattoriuole napoletane infilate nei vicoli fra Santa Chiara e i Tribunali, ed ho imparato ad amare quei vicoli, quelle Chiese, il negozio dei dischi di Enzo che mi diceva “ascoltalo, se non ti piace me lo riporti”.  Wellyn assomigliava ad Eric Clapton e stava con Pascal, la sua bellissima compagna francese, che a sua volta era la copia perfetta dell’etichetta del bianco di Donnafugata oltre a rappresentare il mio primo babysitteraggio con Thomas. Primi soldi, prime responsabilità vere.

Ma la laurea non l’ho mai presa. Però ho fatto il militare; un anno a Bari con i primi sbarchi degli Albanesi. Dove ho visto intervenire prima di tutti Jean Luis David (si, il parrucchiere), che si è subito mobilitato sul porto per lavare i capelli ai profughi che toccavano terra italiana. Poi è arrivata la mia caserma a contenere quel gruppo di stranieri che rifugiatisi nello stadio lanciavano pezzi di spalti al nostro indirizzo spaventati per quello spiegamento militare male organizzato e sproporzionato. Abbiamo distribuito i primi pasti caldi e dopo 3 giorni è arrivata la Protezione Civile e tutti i Ministri a farsi le foto e a prendersi il merito. Esattamente come funziona in azienda.

Nel frattempo i marescialli depistavano casse di acqua minerale destinate ai profughi e chissà quanto altro verso i ristoranti delle mogli. Perché facendo il militare, l’unica cosa che ho imparato è che i marescialli che gestiscono  le mense nelle caserme hanno un ristorante fuori intestato a una moglie.

Tutto il contorno di quello che sono diventato, non ho dubbi, me lo hanno insegnato i miei genitori. Non c’è scuola che tenga se da dove parti non ti si insegnano i valori civili di buona convivenza con Persone diverse da te. Mi hanno insegnato a scegliere e decidere da solo, dandomi le informazioni giuste per farlo ma lasciando che mi assumessi  tutte le responsabilità delle mie scelte.

Mio padre sapeva che non ero “uno da liceo classico”, ma avevo un sogno da ragazzo e il classico mi serviva per realizzarlo. Ci ho messo 6 anni e diversi approfondimenti estivi di latino e greco in cui tornavo a casa con lui che rientrava al lavoro dalle ferie mentre tutti restavano in vacanza al mare. La tristezza di dover lasciare gli amici in spiaggia era brutalmente sottolineata da “White Christmas” di Bing Crosby, cassetta pressofusa nella sua autoradio con autoreverse dicembre-dicembre senza possibilità di replica, nonostante fosse agosto. Mio padre mi ha indirizzato verso Bing Crosby, Frank Sinatra, Dean Martin e insieme abbiamo visto uno dei concerti più straordinari della mia vita: Tony Bennet a Roma.

L’opera omnia dei discorsi del Duce quelli no, quelli sono rimasti sul terzo scaffale in alto.

Fu sempre mio padre a vedere un giorno un’inserzione: Banana Animation (un nome una garanzia) organizzava corsi per animatori. Non so cosa lo spinse, ma quella roba li mi ha cambiato la vita. Finito il corso sono stato spedito in un villaggio a Silvi Marina in Abruzzo; dopo 10 giorni il capo animatore scappa con quella della piscina e vengo promosso sul campo. Il direttore del villaggio mi disse “ti insegno io”. Fu una stagione strepitosa dove testai alla perfezione tutto il “manuale degli errori possibili” e nel contempo imparai a comunicare con gli ospiti, a mediare con la direzione, a collaborare con la cucina e la sala, a gestire il mio piccolissimo team di due persone + un fratello, a risolvere quando pioveva e alla fine a non farmi pagare.  La Banana aveva fatto il suo corso naturale.

L’anno dopo firmai con una società di Rimini dove conobbi Marcello, il mio capo in almeno successive altre sei o sette stagioni, che mi mandò in montagna d’estate. Otto settimane di cui solo una realmente popolata (Ferragosto) da ultranovantenni con problemi cardiorespiratori. Tiro alla fune e corse nei sacchi erano esclusi. Grazie a questa esperienza il direttore dell’hotel in Valtellina mi volle con sé anche d’inverno. Finsi di saper sciare e accettai. Lui se ne accorse dopo 5 minuti ma mi diede fiducia. (I coach oggi direbbero che ha fatto talent management).

Il mio stile doveva essere talmente esplicito che avevo dei gruppi interdisciplinari di sci accompagnato dai 20 ai 70 anni che guardarci scendere dalle piste era magia pura: serpentoni interminabili di vecchi, bambini e mariti mandati a sciare dalle mogli che restavano in albergo con un aitante massaggiatore a curare l’emicrania.

Quel direttore mi ha fatto entrare in cucina, mi ha spiegato come si gestisce un servizio in sala, come si decide un menu e un menu per le feste importanti. Ho imparato cos’è un overbooking e un’accoglienza. Ho portato valigie lungo scale senza ascensore e ho presentato spettacoli in anfiteatri popolati da tantissime persone. Ho imparato ad amare il palco grazie a Maurizio ai suoi modi burberi e a quelle affinità che si sviluppano in un secondo e restano tutta la vita, a sorridere alle persone, a capire il senso del servizio. Ho preso dei cazziatoni storici e feedback straordinari. In Africa ho diretto un resort per un anno. Non mi sarebbe stato possibile se non ci fosse stato quel Marcello, quel direttore d’albergo, quel Maurizio, mio padre e tutte le persone incontrate sul mio cammino. Ognuno di loro mi ha lasciato un pezzetto di storia che ho portato con me.

Adecco mi ha scelto per la conoscenza del mondo alberghiero quando stava aprendo la prima filiale specializzata. Selezionavo camerieri, facchini, governanti. E da lì ho imparato che niente avviene per caso ma soprattutto ad amare le Risorse Umane e a rendermi disponibile per le Umane Risorse.

Non mi sono laureato, spesso mi chiedo se differentemente avrei avuto una struttura diversa da questa. Ma quello che ho imparato per strada non lo darei indietro in cambio di nulla.

Mia nonna aveva la terza media e una biblioteca infinita: Montanelli, Biagi, Shakespeare. Fin quando non ha perso la testa per Berlusconi, era una delle Persone più colte che avessi mai conosciuto.

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