C’è da chiedersi come si stia trasformando nel nostro Paese un tema così delicato come il lavoro e l’occupazione giovanile poiché sembra che, quanto più il livello di emergenza salga, tanto più si abbassi l’attenzione all’etica e alla responsabilità sociale delle aziende, tutte in prima linea quando si tratta di scegliere le cornici per le “vision” e le “mission” da appendere negli uffici, ma che risultano ben distanti negli atteggiamenti quotidiani verso i dipendenti, i fornitori e verso i possibili candidati che saranno i collaboratori di domani.
In poco meno di ventiquattro ore ha fatto il giro del web il concorso per un posto da stagista all’interno dell’Ufficio Marketing di Carpisa.
Operazione di marketing o meno che sarà difficile far passare per provocazione o comunicazione 3.0, perché chi ha ideato il concorso (la pagina ad oggi è stata rimossa) finalizzato ad uno stage di un mese presso l’ufficio comunicazione di Carpisa, previo acquisto di borsetta Carpisa Nuova Collezione e Redazione di un piano di marketing completo al fine di aderire alla selezione, o è lo stagista uscente del precedente concorso, o vive in una valigia se non ha immaginato cosa potesse significare proporre una soluzione del genere in un momento in cui la disoccupazione giovanile è al 36,5% di cui il segmento più alto è proprio quello delle acquirenti di borsette (ovvero la disoccupazione femminile).
Per lo più al Sud.
La social-comunicazione diventa in questo caso la cartina tornasole di un’operazione suicidio che non poteva avere altro risultato.
Dal suo account LinkedIn, ha lanciato la prima pietra Carlotta Silvestrini, esperta di comunicazione e posizionamento dei marchi, e i social hanno iniziato a rispondere, posizionandosi fin troppo unilateralmente: impossibile dividere i commentatori in due squadre come nel caso di Taffo o Buondì; qui il pubblico si è schierato da una parte sola. Purtroppo nessuno dal lato di Carpisa. Nella discussione aperta da Carlotta troverete tutti i particolari per approfondire e leggere i tantissimi commenti arrivati in poche ore.
Io invece mi chiedo come siamo arrivati a trattare il lavoro alla stregua di un gadget da supermercato, quando è successo che ci siamo infilati nel bussolotto della tombola e abbiamo permesso ad imprenditori senza scrupoli, “esperti di marketing”, Business School, società di consulenza e studi professionali di estrarci a sorte e impossessarsi del delicatissimo ruolo delle Risorse Umane. Quand’è successo che un posto di lavoro si sia trasformato nel monte premi una volta dovuto dalle aziende ai collaboratori e oggi pericolosamente capovoltosi in una sorta di omaggio sacrificale in cambio di lavoro gratuito?
Ma, soprattutto, chi ha permesso che uno stagista (non prendiamoci in giro: i 300 euro che il Governo ha fissato come minimo contributo per gli stage in azienda, unitamente al prolungamento dei limiti temporali da 6 mesi a un anno è un regalo fatto alle imprese, non ai lavoratori), per poter accedere a quello stage debba obbligatoriamente frequentare un Master a pagamento?
Abbiamo permesso che si parlasse di innovazione quando si stava chiedendo alle persone di regalare il proprio tempo progettando gratuitamente in cambio di un’opportunità entry level (che, se anche fosse reale, non ripagherà nemmeno in un anno quel tempo speso). Progetti che, nella logica naturale delle cose, vengono svolti da professionisti dopo un brief serio con il cliente, condividendo competenze, mettendo sul tavolo un’offerta economica che ripagano anni di studio e di sacrifici di molti genitori.
E così ci siamo inventati la startup che guarda al lavoro in maniera innovativa e ti chiede di inviare progetti, perché il curriculum è obsoleto, i colloqui di lavoro non sono efficaci e le capacità si devono misurare subito: un gioco di carte in cui da una parte del tavolo si gioca bendati. Offriamo gratuitamente progetti alle aziende nella speranza di essere scelti per un posto da stagista. Arrivano mille idee, il posto è uno solo. A chi conviene, secondo voi?
In realtà abbiamo delegittimato i nostri più giovani collaboratori ponendoli fin da subito su un piano di inferiorità in cui non esistono diritti ma solo doveri, in cui le necessità minime diventano benefit e stiamo vedendo crescere una generazione di sconfitti in partenza: la parola “Neet” (non studiano, non lavorano, non cercano) è una novità in carico ai Millennial e al loro mondo di startup, digital transformation e precariato travestito da innovazione.
E nel frattempo, abbiamo scippato il lavoro a professionisti ed esperti, convinti di risparmiare e affidando quei lavori a junior senza esperienza ma anche senza un tutor che li accompagnasse nella crescita.
Bruciando i primi e anche i secondi.
Personalmente, il lavoro lo preferisco ancora 1.0, quando le aziende cercavano competenze, le misuravano attraverso uffici del personale strutturati, sceglievano fra più candidati all’interno di un percorso che diventava un’esperienza professionale anche per chi non veniva scelto e da quel momento si faceva un viaggio insieme. Con una solida valigia.
Articolo pubblicato su Wired