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La democrazia dell’ignoranza



Mi sembra evidente.
Come siano cambiati i social e in particolar modo Linkedin, ma non solo lui.
Linkedin doveva essere il “social del lavoro”, quello in cui in maniera professionale ci si contattava e si era talmente in pochi da finire per conoscerci anche di persona.

Linkedin – per chi se lo ricorda – connetteva professionisti “dietro presentazione”. I miei primi 10.000 contatti li ho fatti grazie a Persone che mi hanno referenziato ad altre Persone.

Poi è diventato tutto un guazzabuglio alla ricerca di facili like, post autoreferenziali, organizzatori di premi a pagamento (che tutti sappiamo benissimo chi siano, dalla famosa “TV” che nessuno ha mai guardato, al premio “Top” degli avvocati), perfetti sconosciuti che scrivono libri autoprodotti definendosi “i più seguiti sui social”, CEO di aziende in cui non si assume, imprenditori che non trovano ma cercano Amministratori Delegati a Partita Iva.

Insomma, un bestiario di tutto rispetto.

E’ innegabile che ci stiamo appiattendo nel tunnel delle intelligenze artificiali, abbandonando alle logiche dell’algoritmo. Il tempo passato sui social si estende sempre di più, divorando le attività di incontro, di relazione e il tempo libero. Non scegliamo più i contenuti, ma ci vengono serviti seguendo logiche di appartenenza a cui spesso non apparteniamo.

Qualche giorno fa Concita de Gregorio (piaccia o non piaccia ha scritto un articolo perfetto) su Repubblica (piaccia o non piaccia) ha messo in fila una serie di riflessioni che ho condiviso nella newsletter dei soci di FiordiRisorse – Una Nuova Cultura del Lavoro (ultimo dei gruppi Linkedin ancora vivo prima del grande massacro di mamma Microsoft), da cui è scaturito non solo un bel giro di commenti e considerazioni, ma su cui stiamo lavorando per creare una “casa” pulita, onesta, etica, libera dal bombardamento di sponsorizzate, di algoritmi che impongono contenuti che non abbiamo richiesto, di personaggi “innovativi” che impongono visioni aziendali riportandoci indietro di 50 anni.

E soprattutto una casa in cui poter discutere apertamente, referenziare i professionisti in maniera corretta sulla base di esperienze vere, chiedere suggerimenti su progetti personali, avere un pubblico che non sia solo spinto dalla mercificazione, ma bensì dalla condivisione.

“Prima si dà, poi si riceve” scrivevo nel libro con Giovanni Re.

Riporto qui l’articolo (a mie spese), perchè sia utile ad un dibattito fra curiosi e per chi ha bisogno di una casa più pulita.

da Concita de Gregorio:

Chiamano dalle redazioni dei programmi tv – spesso sono i più giovani fra i collaboratori, ragazzi con voci timide, eseguono compiti senza divergere, hanno contratti precari – e ti chiedono da che parte stai. In che senso? Con Israele o con la Palestina, mi scusi ma il suo ultimo scritto era un po’ complesso e mi hanno chiesto di domandarle un chiarimento. “Sa, stiamo costruendo il panel del dibattito”. Il panel del dibattito prevede lo scontro, perché lo scontro fa ascolti (la gente da casa ama la rissa, rifugge il ragionamento, quando la cosa si fa lunga cambia canale.

Questo te lo spiegano subito se lavori in tv: devi semplificare, velocizzare). Gli ascolti fanno pubblicità che vuol dire soldi, profitto per l’editore e stipendi per i lavoratori dunque il panel si “costruisce” come una specie di battaglia navale, si fanno le squadre: due di qua, due di là e vediamo se si prendono a botte. Speriamo che lo facciano. […]

[…] Intendiamoci. Mi rendo perfettamente conto che tutto ciò sia inessenziale mentre proprio in questo istante ci sono famiglie sepolte dalle macerie, bambini che scavano cercando un fratello un amico la madre, lutti e dolori che cambiano per sempre il destino di chi è lì, non il nostro.

È questo il punto: lo sbalzo termico fra l’enormità della tragedia e la vacuità del dibattito. […] Fanno ascolti, generano follower, inalberano l’algoritmo, guarda quanti like ho preso quando ho detto così, guarda quanti abbonamenti ho venduto, quante copie in più.

È un tema culturale, abbiate pazienza se appare marginale ma esiste anche questo: il ruolo degli intellettuali, la responsabilità di chi ha passato la vita a studiare le cose, una cosa, e magari può insegnarla a chi invece si è occupato, legittimamente, d’altro.

[…] L’importante è stare nel flusso, stacci. Parla semplice, parla così che ti possano capire, usa le loro parole. Se sei difficile, passano oltre. La democrazia dell’ignoranza è un obiettivo alla portata di tutti. Essere tutti uguali al grado zero della conoscenza non è difficile. Un po’ di mortadella un rutto una bestemmia soffocata e ci capiamo. Siamo gente del popolo, no? Democratici e simpatici. Si prendono voti, si fanno ascolti, così. Però io ricordo, mi ricordo benissimo, un tempo in cui ti mettevano in mano da ragazza La cognizione del dolore e Viaggio al termine della notte, ti portavano con la scuola in cineteca a vedere Le lacrime amare di Petra von Kant coi sottotitoli e non capivi niente, quello che capivi era solo che c’era tantissimo da capire e ti serviva un dizionario, un maestro, qualcuno che ti insegnasse le cose che non sapevi ancora ed era una fatica enorme, certo che sarebbe stato più divertente andare a farsi un mojito sulla spiaggia anziché ripetere nei pomeriggi all’infinito gli accordi di Toccata e fuga in re minore – a cosa serve il greco, a cosa serve Bach – non è stato un privilegio, è stata una consegna e un lavoro. Sapevi che quello era il tuo dovere: capire le cose complesse, studiarle – questo ti dicevano gli adulti che non erano sempre amici, non sempre simpatici: studia, dicevano, sarà la tua libertà.

Il conflitto israelo-palestinese è materia veramente complessa. E’ come il terzo concerto di Rachmaninov, per chi sa di che si tratta. Può far impazzire. E certo sarebbe utile anche riascoltare le registrazioni di Toscanini, sentire cosa diceva agli orchestrali e come lo diceva, oggi che se correggi l’errore di un più giovane collaboratore ti fa causa per mobbing. Potete, è su YouTube. Anche un Bernstein basterebbe.

Vengo al punto, e chiudo che s’è fatto tardi. Abbiamo un’emergenza, che è un’evidenza. L’imperativo di generare consenso ha ucciso la fatica della conoscenza. È una china pericolosissima: chi governa – eh lo so, lo so: la democrazia, abbiamo deciso noi chi ci governa – dovrebbe tenerne conto.

Non vale più la storia, conta solo il presente. Se dici una parola, se tracci un segno, non importa chi sei, chi sei stato. Me l’ha scritto una professoressa dell’Internet l’altro giorno: le persone non sono obbligate a sapere cos’hai fatto se non glielo dici, gliel’hai detto?, da che viaggio vieni. Se sei Michelangelo o mio nipote Michelino è uguale: conta quel che dici adesso. Sta a te definirti, non sono loro che devono saperti. È tutto sempre ora, nel regno dell’ignoranza al comando.

Le parole però, se le metti sul tavolo dell’anatomo patologo, sono tutte parole morte. Parole morte a dire di gente che muore: servono? È morta la volontà di capire, di sforzarsi nell’esercizio del dubbio. Stai con Merlo o con Zerocalcare? In che lista ti dobbiamo mettere, nel panel? Se produci un testo che non milita, dunque ambiguo, è inutile. Ci vai a Lucca o non ci vai? Puoi scrivere in dodici parole perché? No, non posso. So con chi sto, dentro di me, ma sono aperta al dubbio e dodici parole sono poche.

Sto con quel ragazzino che ho visto l’altro giorno in tv, un bambino di sette anni che dice: io da grande voglio combattere. Vorrei poterlo portare via da lì, portarlo a casa mia, ma non posso. Chi ha sbagliato prima, chi ha sbagliato più forte settant’anni fa, o trenta o l’altro ieri non è più rilevante, ora, non serve più a risolvere: serve solo al narcisismo di definirsi ma per favore, definitevi altrove, non sulla conta dei morti e delle atrocità. I social, lo scrivo periodicamente e abbiate pazienza se lo ripeto, ci avvelenano: ci impediscono di pensare senza essere pensati, di pensare in libertà. Fate digiuno, almeno intermittente. Riprendere in mano un libro, uno spartito.

Non andate a manifestare con gli slogan degli altri, scrivete i vostri: pazienza se non fanno like, se non vanno in trend topic. Non è vero che hanno tutti ragione, che non c’è niente da insegnare a nessuno. C’è moltissimo da insegnare, ad avere la buona sorte di trovare maestri. C’è moltissimo che resta da capire. È tutto complicato. La vita personale lo è. La guerra anche: sembra semplice, chi vince chi perde, ma no invece. È un’illusione, una bugia. Costa fatica, ma serve competenza, conoscenza.

Abbiamo, abbiate rispetto di chi ci ha dato la possibilità di conoscere. Non sono per sempre, i diritti.

Sono fragili, abitiamoli.

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