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Se me lo avessi detto, non ti avrei portato al cinema

Delle mie estati da adolescente, trascorse in vacanza con i miei, ricordo quasi tutto: Tortoreto Lido, la mia prima quasi-fidanzata a cui feci credere di aver scritto io un pezzo che invece era di Pierangelo Bertoli e le discussioni su un pezzo di Baglioni (era “Tu come stai”. Non mi tornava il fatto che dicesse “chi ti apre lo sportello”, ma aveva ragione lei. Sugli uomini che aprono gli sportelli le donne potrebbero scriverci dei trattati), le olive all’ascolana e la crema fritta, ma soprattutto mio padre.

Si, perché da rimandato seriale in latino e greco, metà estate la trascorrevo al mare (studiando) e l’altra metà con mio padre in città (studiando). Non so se fosse più doloroso lasciare gli amici al mare la domenica sera e tornare il venerdì o essere l’involontario passeggero di mio padre che ad agosto come a dicembre inseriva nell’autoradio sempre la stessa musicassetta: White Christmas di Bing Crosby. Chissà se inconsapevolmente quello era il suo modo per rendere più sopportabili le traduzioni di Marco Tullio Cicerone.

In età più recente, quando ormai ero già adulto e per un periodo abbiamo vissuto insieme a Roma da pendolari settimanali, i nostri gusti musicali si erano decisamente più sincronizzati, tanto da invitarmi a vedere insieme uno straordinario concerto di Tony Bennettall’Auditorium che resterà per me memorabile per l’atmosfera e la scoperta di quel crooner davvero unico.

Ma il ricordo che in questo contesto fa davvero la differenza risale più o meno all’età delle scuole primarie. Mio padre mi invita al cinema a vedere Fantozzi (o forse Fracchia). Quest’uscita “fra uomini” non era molto frequente, ma di certo mi faceva sentire grande. Al cinema con mio padre.

Tanto è bastato per evitare di parlargli della nota sul quaderno che la maestra mi aveva rifilato quel pomeriggio (Anna Campa. Non mi ricordo un solo nome dei miei professori, ma la maestra era quella che mi aveva portato a vedere le Catacombe a Roma. Prima gita scolastica). Al rientro dal cinema ci diamo la buonanotte. In casa madre e fratello (allora ancora uno) dormono tutti.

Il tempo di vedere l’ultima luce spegnersi e far passare qualche minuto dall’ultimo rumore, che esco dalla mia camera e appoggio sulla cassapanca del corridoio il quaderno aperto sulla nota. Non mi ero ancora specializzato in abile contraffattore di firme dei genitori con cui avrei negli anni successivi dato vita ad una serie di giustificazioni e permessi degni del miglior Totò, e quindi si rendeva necessaria firma autografa in originale.

Il mattino dopo, mio padre mi sveglia alla sua ora, mi guarda negli occhi e mi dice solo una cosa: “se me lo avessi detto, non saremmo andati al cinema”.

Quello che vorrei trasmettere, facendovi gli affari miei, è la sensazione di stare perdendo i padri.

Non parlo dei pater familias nello specifico. Non essendolo, rischierei di peccare di presunzione nel giudicare un lavoro che non conosco, sebbene quando vedo i genitori menare i maestri o certe scene da ristorante dove vorrei conversare serenamente con chi mi accompagna anziché ritrovarmi in una scena di SOS Tata, qualche domanda me la faccio.

Parlo di quei padri che riescono a trasmettere valori e senso di responsabilità a chi arriva dopo: figli, nipoti, studenti o collaboratori.

Si fa un gran parlare di come la scuola non sia in grado di preparare i giovani al mondo del lavoro. L’alternanza scuola – lavoro è demandata a qualche preside lungimirante e a qualche azienda che di  iniziativa spontanea decide di sondare il proprio territorio; tuttavia, a livello nazionale, ancora non esiste un programma specifico e una serie di case history che possano testimoniare quali sarebbero i risultati se gli studenti, fin da giovanissimi, respirassero aria d’azienda.

Sempre più frequentemente mi accade di andare nelle Università a “orientare” gli studenti degli ultimi anni e quando chiedo di fare 3 nomi di aziende a cui domattina porterebbero un loro cv, quasi sempre è scena muta. Al quinto anno di università non si può non conoscere il nome di tre-dico-tre aziende del proprio territorio. Responsabilità dei padri, delle madri, dei docenti, del sistema scolastico, degli imprenditori.

Le aziende hanno licenziato la loro storia

“La crisi siamo noi”, amo spesso ripetere quando vedo aziende poco lungimiranti e manager poco curiosi. Negli ultimi anni “per colpa della crisi” molte aziende hanno lasciato a casa la loro storia.  Dipendenti importanti che hanno conseguito obiettivi strategici per le loro aziende, che hanno permesso a quelle aziende di crescere e svilupparsi, che hanno rinunciato al sonno, alle ferie, a una famiglia per la loro azienda si sono ritrovati fuori dalla porta da un momento all’altro, per fare spazio a profili più giovani, con meno esperienza, ma soprattutto più economici. La cecità di alcuni direttori del personale che spesso vedo vantarsi in colloquio dei “risultati conseguiti con i sindacati” e poi fanno scena muta quando chiedo quali percorsi di formazione e di crescita hanno sviluppato per le proprie Risorse, sono i responsabili di un gap generazionale e di una profondissima crisi di valori in cui chi oggi entra in azienda non ha più una guida a cui affidarsi.

Ricerchiamo i talenti e molto spesso sono già in azienda

Ed è ancora un tema di responsabilità la schizofrenica ricerca del “talento” che a mio parere non ha aiutato le aziende a risolvere la crisi. L’ha accentuata. Banale, ma evidentemente non per tutti, che sostituire un senior con competenze acquisite, conoscenza dei mercati e relazioni con i clienti chiave al netto degli errori-base già effettuati, con un giovane con poca esperienza, può conseguire solo un unico risultato: lo schianto nel vuoto.

Anzi, due risultati. Assumere un giovane con poca esperienza e caricarlo di responsabilità, KPI, obiettivi a breve termine e non formarlo nei tempi e nei modi richiesti, oltre allo schianto nel vuoto genera anche un problema sociale: allontanare i giovani dalle aziende. E non è un caso se il numero dei NEET o di coloro che si fanno abbagliare dall’idea delle startup o dell’attività in proprio, sia in costante aumento.

Mancano i riferimenti culturali

E infine, mancano dei veri e propri riferimenti culturali al valore aziendale. Ascoltando le interviste o gli interventi della stragrande maggioranza degli imprenditori nostrani emerge un solo unico riferimento: Adriano Olivetti. Evidentemente Luisa Spagnoli, Gaetano Marzotto, Enrico Loccioni, ma anche Guglielmo Marconi (e invito quanti stanno leggendo a visitare Vetrya, Corporate Campus in quel di Orvieto e vero esempio di innovazione culturale in Italia) sono nomi non pervenuti al management italiano.

In ogni caso, quello che sorprende è che gli ultimi 60 anni sembra che questo management si sia impermeabilizzato nella ricerca di nuovi riferimenti se i nomi che sappiamo proporre nelle nostre business school e sulle riviste specializzate sono sempre i soliti (straordinaria l’intervista a Mario Carraro su questo numero), imprenditori dallo speciale talento produttivo ma non certamente dalle grandi qualità comunicative nel trasferire valori e conoscenza (al netto dei brillantissimi uffici stampa) e a impatto sociale zero (o che almeno si nascondono molto bene a chi è esterno all’establishment o fuori portata dai microfoni).

La disintermediazione della responsabilità

“Uberizzazione” è un termine che non riguarda solo la disintermediazione dei prodotti / servizi, ma a mio parere coinvolge totalmente anche coloro che devono prendere decisioni importanti, soprattutto se queste impattano su altre Persone. Chi si occupa di Risorse Umane dovrà in questo senso fare un grandissimo lavoro di rebranding, avvicinandosi di più alla cultura d’azienda che a quella sindacale. Le medaglie vanno conseguite per lo sviluppo delle organizzazioni non per il taglio dei costi e purtroppo oggi è sempre più frequente osservare manager più a loro agio con i fogli di excel che non con le Persone.

Diventa sempre più necessario che manager e collaboratori non aspettino la notte per far firmare la nota sul quaderno e ancor più necessaria una classe di imprenditori che sappiano dire: “se me lo avessi detto, non ti avrei portato al cinema”. Responsabilmente.

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