R-I-S-O-R-S-E U-M-A-N-E
due parole che malissimo si integrano accanto a tutte le altre che la divisione aziendale preposta alla cura delle Persone ha inventato nel corso degli ultimi anni, allo scopo di far sembrare meno obsoleto un agire e un pensare che hanno già perso la corsa con i tempi.
IDENTITÀ
L’identità di un brand – ci insegnano ormai da anni in tutte le Business School così come nei webinar dei Circoletti Ninja del Web, è un elemento fondamentale per farsi riconoscere. Non lo è solo per le aziende o per le grandi marche, lo è anche per le istituzioni, le organizzazioni e a maggior ragione per le Persone.
Tanto che è un bel pò che si parla di Personal Branding.
Eppure sembra che anche a questo tema, chi si occupa di Risorse Umane sia straniero. Ed è proprio partendo dal menù della casa che già l’odore che arriva dal frigo fa capire che il prodotto è scaduto da un pezzo.
Ma si può ancora parlare di “Maestranze” e “Somministrati” nel 2020?
C’è una distonia impressionante nella comunicazione che gli HR utilizzano quando parlano in pubblico e quella che utilizzano quando parlano fra di loro. Vi auguro di non partecipare mai a una conversazione fra due HR che si raccontano epicamente di come hanno “riorganizzato”…
CURIOSITÀ
Spesso mi chiedono quale sia la caratteristica più importante quando seleziono un candidato. “La curiosità”, rispondo.
Chi opera nelle Risorse Umane non dovrebbe avere solo una generica passione per le Persone ; dovrebbe essere affamato di sapere per capirle anche, le Persone. E invece troppo spesso ci si fa bastare il titolo conseguito in psicologia, che nelle Risorse Umane – personale opinione – rappresenta più un handicap da recuperare che non un vantaggio.
Le Risorse Umane parlano di Risorse Umane, studiano di Risorse Umane, dialogano con le Risorse Umane, si ritrovano nel circoletto delle Risorse Umane, ne capiscono di Risorse Umane. Sono RisorseUmanoCentriche.
La categoria che professa l'”open mind” e che riempie le slide di concetti multidisciplinari, vive nel cassetto a compartimenti stagni delle Risorse Umane.
Negli ultimi anni poi, grazie alle attività culturali e non-commerciali di FiordiRisorse, mi è spesso capitato di voler coinvolgere le aziende con cui sono in contatto a seminari, approfondimenti, stimoli di ogni genere, essendo oltretutto in contatto con personaggi straordinari che tanto hanno da trasmettere in termini di cultura del lavoro.
Gentile sig./ra Direttore/trice del Personale,
dai un’occhiata a questo incontro che ho organizzato con il filosofo esperto in etica dei big data e uno dei massimi esperti di cybersecurity, moderato dal giornalista di Radio1 che dirige una trasmissione sull’innovazione. Potrebbe essere l’occasione per coinvolgere qualcuno dei tuoi collaboratori e la tua azienda a aggiornarsi e confrontarsi sul tema.
Risposta:
grazie Osvaldo, ma giovedi prossimo a quell’ora ho già un impegno preso da tempo.
Ma chi ha chiesto a TE di partecipare?
Il problema – è evidente – non è che tu abbia un impegno o meno. È che proprio non ti passa nemmeno per l’anticamera del cervello di verificare se in azienda ci siano Persone interessate a cui proporlo (GRATIS e senza alcun fine commerciale successivo), non sei minimamente “acceso/a” a capire se un tema del genere può far parte delle conoscenze che la tua azienda deve iniziare a considerare, non hai la minima intenzione di fare “qualcosa di più” rispetto al ruolo che istituzionalmente ricopri.
Salvo poi, in ritardo come sempre, dover ricorrere ai ripari quando sarà il board a chiedertelo (vedi alla voce “smart working durante il Covid”) e a quel punto partono le consulenze.
Curiosità, questa sconosciuta.
CSR e SOSTENIBILITÀ
Se ne fa un gran parlare. Le borraccette di alluminio che hanno sostituito la plastica in azienda sono state uno dei temi portanti dei post degli HR su Linkedin. Immagino le riunioni e i dibattiti ecosostenibili e le slide in materiale riciclabile con cui hanno presentato il progetto .
RICORDA DI CANCELLARE LE TRACCE
Ma come spesso accade, la mano destra non sa cosa fa la sinistra, nonostante i processi interni e le diciassettemila firme di presa visione apposte dall’ufficio incaricato alle autorizzazioni sull’uso dei loghi, dei pantone giusti e della misura “corporate” più adeguata con cui dare visibilità al nostro brand.
Spendono in media 12.000 euro l’anno a testa in soluzioni Linkedin, le aziende italiane. Per poi fare employer branding o recruiting dai profili personali, che per carità, rappresenterebbe la massima espressione del senso di appartenenza che porta al paradiso degli Ambassador aziendali, se ci fosse un minimo di linea guida, formazione e qualità.
E invece troppo spesso l’azienda racconta una storia, smentita dai propri dipendenti.
REPUTAZIONE
Prima di affermare che non si trovano candidati, sarebbe utile che chi si trova negli uffici del Personale, avvisasse il reparto comunicazione che si stanno utilizzando lavoratori in prestito dalle Agenzie per il Lavoro, dalle Cooperative, da intermediari di qualsiasi genere. Soprattutto le grandi aziende, quelle che battono i palcoscenici dei grandi convegni di settore e che espongono in portineria il gagliardetto del Best Place to Dead , dovrebbero avere un occhio di riguardo per la qualità del lavoro, dei contratti utilizzati e dell’etica con cui (non) si assumono lavoratori nonostante siano da anni al nostro servizio.
Quando si dichiara che i giovani non vogliono lavorare sarebbe bene che l’Ufficio del Personale spiegasse all’imprenditore che prima di rilasciare dichiarazioni sia al corrente di quante vertenze sindacali ci sono in azienda, di cosa dicono i propri lavoratori di noi e quale sia il clima aziendale.
Altrimenti si rischia di essere duramente smentiti e perdere credibilità, com’è avvenuto a quella serie di aziende Venete e Lombarde che pensando di farsi pubblicità gratis sui giornali, si sono ritrovate sommerse di commenti negativi.
Si chiama Reputazione. Un incomodo inquilino che soprattutto chi frequenta i grandi gruppi parastatali e le multinazionali, poteva permettersi di ignorare fin quando non c’erano i social, i commenti sui giornali on line e un publiredazionale o una pagina comprata dall’Amministratore Delegato venivano spacciati per “un’intervista sul Sole24Ore”.
INNOVAZIONE
La parola più facile da abusare, soprattutto laddove non ve n’è traccia. Una parola da sussurrare in silenzio nella divisione aziendale in cui fino a 4 anni fa le politiche HR vietavano la navigazione sui social dai computer aziendali e oggi è di moda parlare di “ambassador”.
Sebbene ancora in pochi abbiano inserito nei percorsi di formazione almeno una giornata sull’uso dei social per i collaboratori.
Ma Tecnologia e HR viaggiano su corriere diverse. E quando quest’anno l’emergenza Covid ha costretto i Responsabili HR a definire finalmente delle politiche serie e necessarie di smart working, si sono aperti i cassonetti in cui per anni si è nascosta l’immondizia operativa di finte procedure utili solo ad allungare qualche weekend al mese o poco più e avere uno straccio di case history con cui vantarsi alle convention di settore che sanno di finto già dalla copertina del power point.
Un giorno di smart working alla settimana non è smart working. Non è nemmeno la più lontana imitazione di un tentativo sbilenco di fare una seria cultura del lavoro in azienda. Processi senza anima supervisionati da legali e consulenti che hanno l’unico scopo di corazzare qualsiasi iniziativa coraggiosa da eventuali rimostranze sindacali o anche solo per evitare che ad un qualsiasi incidente di percorso sia rivelata l’impronta digitale del Responsabile del Personale. Non sia mai.
Processi – come è evidente – che non hanno preso in considerazione nemmeno per un minuto l’ipotesi di dotare “i capi” di una moderna cultura di gestione dei collaboratori e dei processi a distanza e di concordare un efficace piano di risorse tecnologiche (banda, hardware, piattaforme) per immaginare – anche solo alla luce dell’entrata dei tanto citati Millennials in azienda – un graduale abbandono delle scrivanie.
Invece, abbiamo trasferito sedi con una grande identità storica dalla periferia dell’impero (vedi Nike a Bologna o Poltrona Frau da Tolentino) dove aveva un senso non solo logistico, ma anche economico e culturale per tutto un territorio, per portarle verso il Grande Centro, possibilmente all’ombra di Giardini in cui la perversione del design contronatura ha deciso per loro di crescita in verticale, per alimentare l’ego dell’autoreferenza e distruggere definitivamente fatturati, identità e il senso stesso dell’azienda.
Quel purpose di cui si sono riempiti la bocca per un anno intero.
E così, Unicredit, dopo aver lottato con il sangue per avere il Grattacielo più alto dell’Universo che spicca con una frequenza imbarazzante in alcune produzioni televisive italiane, negli ultimi due anni ha lasciato a casa 8000 Persone ma ha salvato il palazzo, nonostante il tentativo di qualche consulente di casa ben pagato di giustificare l’operazione sul giornale a cui il cliente offre migliaia di euro l’anno in pubblicità (vi negherà mica uno spazio?)
Ma questo, ammetto e mi scuso per la divagazione, non è un problema di Risorse Umane, che dovrebbe invece chiedersi come mai, quando si parla di strategie, sia sempre fuori dai tavoli di discussione.
Ma torniamo a qualcosa che riguardi DAVVERO da vicino chi si occupa di Risorse Umane.
Quale Smart Working avevate immaginato?
Con l’avvento delle generazioni “digitali” in azienda, uno dei temi di discussione più effervescenti degli ultimi anni (fosse anche solo per emulazione con le riviste da oltreoceano che di ricambio generazionale e di modelli “smart” parlano da almeno 10 anni…) riguarda il “lavoro agile”.
Un innesto verbale che in Italia ha significato generare dibattiti e convegni organizzati, gestiti e coadiuvati prevalentemente dall’Associazione dei Direttori del Personale divenuta Associazione per le Direzioni del Personale dopo la copiosa emorragia dei titolari a favore delle riserve: pensionati orfani di poteri auto riferiti su cui hanno costruito una carriera, consulenti della qualsiasi, coach e counselor, agenzie per il lavoro e piattaforme gestionali.
Da una veloce ricerca su Google sono oltre 180.000 le chiacchierate organizzate nei vari circoli regionali sul tema con grande sfoggio di case history, tavoli di lavoro, riflessioni, scampagnate e paginate su giornali, blog, periodici manageriali. Lievitate a 270.000 durante il periodo Covid-19.
Alla prova del nove, è ormai sotto gli occhi di tutti che non ci sia stata alcuna azienda che non si sia fatta sorprendere dall’emergenza . Chi più, chi meno non era pronto dal punto di vista tecnico (mancanza di device per tutti i dipendenti anche in aziende iper tecnologiche), culturale (nessuna formazione manageriale sulla gestione dei collaboratori a distanza per i Capi e della gestione del quotidiano per gli altri collaboratori), operativo (per la gioia di Zoom, di Team e di Meet che hanno decuplicato i fatturati in barba a tutte le pippe sulla sicurezza informatica che in assenza di competenza, è uscita dalla lista delle priorità).
AIDP: non pervenuta.
Risulta dunque semplicemente imbarazzante il comunicato stampa emesso dall’AIDP a nome della Sua Presidentessa che a scadenza di mandato sembra essere particolarmente interessata ad una exit-strategy nella carriera politica a giudicare dalle forti critiche che da diversi mesi l’Associazione indirizza al Governo, come mai è successo prima.
Il documento si intitola: “le 5 linee guida per gestire il lavoro nel post-coronavirus proposte dai direttori del personale al Governo “.
Come se non fossero bastate le pressioni di Confindustria sulle aperture indiscriminate delle imprese associate e sulla negazione delle zone rosse con il disastro che ne è conseguito, aggiungiamo anche questa.
A differenza dell’obiettivo che il comunicato stampa vorrebbe prefiggersi, l’impressione è quella di una resa a mani alzate. Una confessione spontanea a tutti gli effetti.
Iniziamo dalla data di emissione del comunicato stampa: 30 aprile 2020.
A due mesi abbondanti dall’inizio dell’emergenza e alle porte della fine del lockdown, AIDP si ricorda adesso di dare le linee guida. Con 270.000 risultati su Google, dovrebbero aver acquisito ormai talmente tanta esperienza da proporsi come ennesima task force governativa per la gestione dell’emergenza in azienda già dai primi giorni, non quando ormai tutte le aziende si sono organizzate e hanno inserito nuovi modelli ANCHE per far fronte al vuoto sistemico generato dagli Uffici Risorse Umane sul tema.
Il comunicato stampa parla di esperienza sul campo di migliaia di direttori del personale. Peccato che sul sito stesso, si dichiarano 3000 associati (bisognerebbe sapere quanti per la Questura) e fra questi, di direttori del personale è certo che non ce ne sia nemmeno la metà che siano realmente tali ed attivi in azienda. Basti guardare da chi sono composti i vari comitati scientifici, soci onorari e responsabili di tutte le aree (compreso il responsabile Social Network con 30 contatti su Linkedin, da cui è più che comprensibile perchè AIDP sui social comunichi come un bambino di 13 anni uscito mezz’ora fa dallo studio del dentista con l’apparecchio nuovo) ed è evidente che l’Accademia e la consulenza la facciano da padrone.
Il primo punto è una forte critica nei confronti dello smart working così definito. Si richiede infatti di “sviluppare un modello di smart working reale ispirato ai principi del benessere delle persona, della crescita, etc etc. .” E finalmente la confessione: “Quello vissuto in emergenza è stato home working, tipico di una obsoleta organizzazione del lavoro”
C’è da fare i complimenti per una presa di coscienza così evidente e di cui ormai parlano anche i muri ma scusate, chi è che lo ha così strutturato, organizzato, definito e conquistato attraverso relazioni industriali e tavole pensanti in tutti questi anni? E soprattutto: chi è che definisce all’interno di ogni azienda le procedure, l’operatività e la formazione in tal senso?
Oppure qualcuno puntava una pistola alle tempie degli HR quando firmavano i processi e si incontravano in riunioni infinite con i sindacati?
Al di là della gran confusione interna, non capisco quale sia il senso di una proposta di linea guida al Governo che sul tema non ha mai messo bocca, lasciando totale autonomia ad ogni singola azienda.
Nel secondo punto si richiede un’organizzazione del lavoro secondo i parametri della sicurezza e della salute attraverso fasce orarie di entrata ed uscita scaglionate, 6 giorni alla settimana, flessibilità di orario, utilizzo delle app. Un minestrone estratto da quanto tutti noi abbiamo letto sui giornali e durante ore di dirette e di networking vero, fra chi aveva bisogno di confrontarsi con colleghi con una visione di insieme decisamente più panoramica di questa.
Peccato che volendo, anzichè “proporre” si può fare e non credo che ridefinire gli spazi aziendali, acquistare l’app per il distanziamento sociale che è già commercializzata da un’azienda seria o ridefinire i turni sia un’azione governativa. Intanto si potrebbe cominciare da qui, in attesa che si aprano dei tavoli governativi sulla revisione dei contratti collettivi (che non mi risulta AIDP abbia richiesto) che non credo si possano rivoluzionare in 48 ore mandando per aria decenni di trattative sindacali. Come d’altro canto vorrebbero anche le società di food delivery per poter operare nella pirateria più totale come fatto fino ad oggi che è costato loro una vertenza penale .
Chissà se fra i direttori del Personale che aderiscono ad AIDP e che parlano di sicurezza sul lavoro e di salute ci siano anche coloro che regolano le Risorse Umane nelle aziende che non hanno mai chiuso (Tenaris, ABB, Persico, Dalmine, giusto per nominare chi è nel mezzo dell’epicentro e che ha anche iniziato a contare i morti mentre offriva il Vetril come disinfettante per le mani o proponeva flash mob tutti vestiti di rosso! ) e dalle quale non mi sembra si sia sollevata alcuna voce di protesta o di proposta alternativa.
Terzo punto è la semplificazione delle procedure , in cui si propone di ripensare la normativa sulla privacy (e certo! Una bella premessa al ritorno al comando e controllo tanto caro a certi direttori del personale che in questo periodo abbiamo visto richiedere ai propri collaboratori da casa di tenere accesa la telecamera!) per tutelare al meglio la salute dei propri dipendenti.
Quarto punto: richiedere ai dipendenti di partecipare alla gestione e all’utile dell’azienda per il superamento delle relazioni industriali.
È evidente che un modello che si avvicini al working buy out sia il walhalla di qualsiasi titolare d’azienda, ma non ho letto in questa proposta straordinaria di AIDP quale sia la controparte spettante al lavoratore in termini di ritorno sull’utile aziendale, sulle decisioni del board e sull’autogestione dei tempi di lavoro. Se devo essere imprenditore, vorrei goderne anche dei benefici e dei diritti.
Nessuna proposta, solo appelli che hanno l’amaro odore di chiuso della camera dove queste proposte vengono generate fra “espertoni” senza aprire mai la finestra ed ascoltare le voci dall’esterno respirando un po’ di aria nuova.
Non mi dilungo sull’ultimo punto, quello della flessibilità e dei contratti a termine . Non è evidentemente bastata la gestione prima maniera dei voucher (a cui AIDP auspica il ricorso) serviti solo ad alimentare ulteriormente il nero o a far passare per “lavoretti” quelle che erano delle collaborazioni continuative a tutti gli effetti. Non è bastato nemmeno il naufragio di Garanzia Giovani e alcune norme del Jobs Act promulgate da un governo sicuramente più affine allo stile di AIDP.
In quest’ultimo punto, AIDP chiede la possibilità di estendere contratti a tempo senza giustificazione e poter ricorrere ad apprendistato e somministrazione senza “troppa burocratizzazione” “per dare fiducia a chi vuole far decollare il Paese”
Per AIDP, il Paese decolla solo grazie all’imprenditore, senza alcuna regola e tutela, lasciando i lavoratori fuori dall’aereo o magari sotto le ruote durante “il decollo”.
Ancora una volta è evidente la distanza che c’è fra Risorse Umane ed Umani, che non sono un patrimonio da curare, ma soggetti da amministrare.
Se c’è un solo socio di AIDP in ascolto, mi piacerebbe sapere che ruolo ha avuto nella redazione di un comunicato simile e fino a che punto lo condivide senza vergogna.
REVERSE MENTORING
Abbiamo licenziato figure senior perchè troppo costose, per sostituirle con junior a cui chiedere di performare esattamente come coloro che lasciavano le aziende. Anche qui le Risorse Umane hanno perso una partita.
Ci troviamo in un momento storico unico, in cui i junior possono insegnare ai senior l’utilizzo di strumenti e modalità di lavoro diverse. E in cui i senior possono trasmettere conoscenza e competenze.
Invece abbiamo preferito divulgare l’apologia dell’errore, nata nelle startup della Silicon Valley dove la cultura imprenditoriale e manageriale è profondamente diversa dalla nostra per non dire incompatibile e rilanciata dai coworking milanesi alla moda in cui i giovani HR amano andare a “fare formazione”.
E infatti, abbiamo fallito.
LE PAROLE, ANCORA PAROLE
E ancora di parole si parla. La necessità di farsi chiamare “Business Partner” rappresenta evidentemente una crisi di intenti. Laddove nessuna divisione aziendale ha la necessità di far comprendere la propria partecipazione al business (non c’è business senza commerciale, evidente. Ma anche senza amministrazione. A maggior ragione il business ha bisogno di comunicazione e marketing per farsi conoscere e nemmeno a dirlo, di prodotto da comunicare.
Com’è che solo le Risorse Umane non sanno far percepire l’importanza che ha per il business assumere la Persona giusta? Come mai non riesce a motivare l’importanza che hanno per il business i progetti motivazionali a supporto del clima interno? Spiegare che il welfare aziendale non sono le palestre e gli asili nido? E allora, mettiamoci un’etichetta: Business Partner. Ma tale resta.
Il Manager della Felicità , una roba vecchia che risale al 2001 quando selezionavo personale per la neonata H3G, è un’altra ammissione di fallimento . Evidente. Eppure, tanto successo ha avuto in certi contesti poco affini alla curiosità e per i quali l’innovazione è anche solo usare una parola nuova per comprendere un concetto vecchio.
Perché senza contenuto, una parola è solo una scatola vuota.
Il Talent Acquisition Manager , un’altra forzatura buona per il marketing dell’apparenza. Come si seleziona un Talento? E che talento ha chi seleziona un talento? E come si gestisce poi un talento, che piani abbiamo previsto per la crescita di un talento?
Il vero problema è innanzitutto che alla parola talento risponde la figura ben precisa di: giovane, economico, adattabile. Il secondo problema è che quella figura, assunta per un talento specifico, finirà per fare per tutto il tempo che resterà in azienda, sempre e solo quella cosa per cui è stato definito talento.
Ecco perchè alla lunga, andrà via.
E infatti, da una ricerca di Deloitte dello scorso anno, risulta che l’86% dei dipendenti non conosce quali siano le ricerche aperte dalla sua azienda. Quanti sono gli Uffici del Personale che hanno attivato dei progetti di conoscenza fra colleghi e fra azienda e collaboratori per meglio conoscerli, sapere come trascorrono il tempo libero, conoscere le loro passioni e magari anche le loro aspettative. Prima di arrivare al giorno in cui il dipendente si siede alla scrivania del Capo del Personale con un’altra proposta, per farsi rilanciare, intendo!
Il dipartimento HR non conosce le competenze alternative dei propri collaboratori o anche solo essere a conoscenza di una situazione familiare per cui un collaboratore ha affetti in altre regioni o nazioni. Così che, quando si necessita di una nuova figura si preferisce assumere nuovi collaboratori da fuori, magari soffiandoli a un competitor, pagandoli molto di più di quanto costerebbe una soluzione interna.
Per non parlare dei percorsi di formazione. In una recente selezione che ho condotto per il Gruppo LVMH, intervistando un numero spropositato di direttori del personale alla domanda: “che percorsi di formazione adottate per i vostri collaboratori”? Queste le risposte:
Nessuno. (“Se poi li formi e se ne vanno?” in sottofondo). Excel e Corsi di Inglese La formazione obbligatoria (sicurezza e macchinari) Usiamo un formatore interno da 30 anni amico del titolare “la Bocconi” per un manager ogni anno. Corsi di Business School locali (i MIlanesi alla Bocconi, gli Emiliani alla BBS, i Veneti al Cuoa, i Marchigiani all’Istao. In pratica si impara sotto casa, con tutto quello che ne consegue in termini di scambi culturali, punti di vista diversi, formazione innovativa. Ma questo serve più alla gestione delle relazioni sul territorio che non alla formazione vera e propria che poi i collaboratori, vanno a cercare altrove, spesso a proprie spese.)
NON POSSO DARLE 30.000, ALTRIMENTI SI INFRANGONO “GLI EQUILIBRI”
L’ultima nota dolente riguarda le retribuzioni. In tema di lavoro agile e nuove generazioni, continuiamo a ragionare con la logica “dell’equilibrio”.
La logica dell’equilibrio è quella malattia schizofrenica per cui un responsabile del personale ha assunto un direttore marketing cinque anni fa ad un prezzo divenuto fuori mercato, non ha mai fatto crescere quella retribuzione ed ora che ha bisogno di inserire una Persona nel dipartimento si accorge che per le competenze richieste dalla job description la retribuzione adeguata va pericolosamente a coincidere con quella del Responsabile.
Così, piuttosto che rivedere le retribuzioni non più attuali, si preferisce accontentarsi di mediocri o di candidati momentaneamente in sofferenza e disposti a tutto (che il giorno stesso in cui mettono piede in azienda hanno già un piede fuori dalla porta pronti a cogliere la prima miglior occasione) con cui riempire le caselline dei budget del personale opportunamente predisposte a inizio anno senza guardare fuori dalla finestra, dove il mondo è totalmente cambiato, per dimostrare di essere stati “efficaci ed efficienti”.
Conseguenze: quel direttore marketing sta già cercando altrove, sia perchè la sua retribuzione non è adeguata, sia perchè gli vengono offerti collaboratori non all’altezza. Il turnover in azienda (e dunque i costi) è ingestibile considerando che in alcuni casi i responsabili poi si portano dietro i migliori collaboratori. I budget saltano. Il clima interno diventa tossico.
O adesso o mai più
Prendiamo ciò che di buono ci ha portato l’emergenza: la possibilità di una grande messa in discussione senza giudizi. Anzi, con l’opportunità di fare davvero cambiamento, dando la colpa ad un agente esterno imprevedibile: il Covid.
Le Risorse Umane non solo quindi si salvano la pelle, ma si sono ritrovati l’innovazione in casa senza essersi dovuti esporre. Hanno sperimentato senza dover chiedere.
La condizione ideale per il profilo tipico dell’HR italiano.
Da questo punto in avanti il terreno è spianato e si ha davanti la grande occasione di poter fare la differenza e di lasciare una traccia personale nei nuovi modelli organizzativi. O adesso o mai più.
Se le Risorse Umane perdono questa occasione, nella nuova èra antropologica che stiamo per inaugurare, l’unico rischio è di non risultare all’appello.